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IL SOGNO IN PSICOTERAPIA COME DESIDERIO E COME RELAZIONE DI AIUTO
2 Maggio 2013
Ipocondria e immagine corporea
2 Maggio 2013
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  • Riflessioni sulla morte e il morire
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Giampiero Morelli *

“INformazione Psicologia Psicoterapia Psichiatria”, n° 36-37, gennaio-agosto 1999, pagg. 26-45, Roma

Non penso assolutamente mai alla morte. E nel caso lei vi pensasse, le raccomando di fare come me: scriva un libro sulla morte (…), la faccia diventare un problema (…). Infatti è il problema per eccellenza. E anzi, in un certo senso, l’unico.
(Vladimir Jankelevic, Pensare la morte?)

Introduzione

Nel tentativo di definire il sistema culturale nel quale viviamo non ci sono molti dubbi che i termini “informazione” e “comunicazione” possano descrivere compiutamente, almeno per quanto riguarda i paesi più avanzati, questo specifico momento storico. La radio, la TV, i giornali sembrano ormai insufficienti ed inadeguati a fronte delle nuove tecnologie che permettono uno sviluppo di canali di comunicazione sempre più raffinati. I sistemi informatici, satellitari, a fibre ottiche, cellulari hanno permesso la realizzazione di quello che gli esperti definiscono “villaggio globale”. Ancor più che un mezzo o uno strumento la comunicazione rappresenta un fine, un valore, un dogma: “ancora non hai il cellulare?” “Cosa aspetti a comprarti un fax o ad abbonarti ad internet?”
Ogni aspetto dell’esistenza si mostra ed è mostrato in tutta la sua visibilità, ogni ambito del sapere appare accessibile, conoscibile, “comunicabile”. Nulla si cela allo sguardo neanche i luoghi più privati, intimi, inaccessibili del nostro corpo. Anche il sesso, che come la salute è oggetto di campagne capillari di educazione ed informazione, è uscito da quell’aura di mistero e di indicibilità mostrandosi, raccontandosi, rendendosi visibile.
Sappiamo tutto della vita.
Ma a volte c’è una rottura, una interruzione: “da quando ho fatto delle analisi per quel dolore alla schiena il medico mi sembra evasivo, mi dice che non ci sono particolari problemi ma giusto per scrupolo vanno fatti altri accertamenti. In effetti il dolore aumenta, non mi sento molto bene ma in famiglia mi dicono tutti che non è nulla, che sono stanco, stressato. Forse è vero, mi sto preoccupando inutilmente”. In realtà questo paziente è l’unico a non sapere che ha un tumore ai polmoni con metastasi cerebrali, estremamente aggressivo ed infausto. Quando le sue condizioni si aggraveranno gli verrà detto che in effetti ha una pleurite o una polmonite ma che non si deve preoccupare anche se quella tosse persistente non accenna a diminuire, anche se a volte non si sente molto lucido, anche se avverte una stanchezza “mortale”. Del resto i familiari sono sempre allegri, i medici che vengono a casa – il malato non si può più alzare dal letto – così tranquilli ed efficienti. Presto questo malato morirà ma prima sarà addormentato farmacologicamente. I familiari non gli terranno la mano: “tanto non sente”, “non può comunicare”; e in splendida solitudine sparirà, entrerà nella morte senza una parola, un saluto, un “ti voglio bene..”.
Quello che abbiamo brevemente descritto è un percorso tipico che segna tutto l’iter della malattia, dalla diagnosi fino alla morte del paziente, accompagnato da omissioni, falsificazioni, informazioni ambigue fino ad arrivare ad una sorta di terra bruciata intorno al paziente, a quella “congiura del silenzio” che si realizza in modo così tipico e per certi versi in modo così monotono e sempre uguale.
Malattia e morte, in modo particolare quando si tratta di una malattia oncologica 1, sono tagliati fuori dalla cultura della comunicazione: “la conoscenza completa e condivisa, da parte del malato, della propria condizione è un caso piuttosto raro mentre tende a generalizzarsi la dissimulazione” (Spinsanti, 1985 p.169). Anche in quei Paesi dove il paziente viene informato circa la diagnosi e la prognosi, la comunicazione, con il progredire della malattia, si fa più rarefatta, più ambigua, più evasiva, all’interno di un più generale evitamento ed isolamento del malato: “le camere dei malati di cancro inguaribili vengono evitate dai primari (ma anche dal personale sanitario loro destinato), e non solo nella vera e propria fase terminale, quando la comunicazione tra medico e paziente è gia compromessa, ma molto prima (….) ciò nonostante proprio questi pazienti, gia duramente provati dalla sorte, e i loro parenti più direttamente coinvolti avrebbero veramente uno speciale diritto ad un’assistenza psicologica particolarmente buona da parte dello specialista che hanno scelto” (Senn, in Meerwein, 1985, p. 56).
La scelta di informare o meno il malato è comunque un problema molto ampio che coinvolge non solo il malato, i medici curanti ed i familiari, ma anche la struttura sanitaria, il corpo sociale. E’ una scelta che si pone continuamente e ripetutamente lungo tutto l’iter della malattia: al momento della diagnosi, nel corso dei diversi interventi terapeutici (operazioni, chemio-radio terapia), nel caso di recidive, di terapie palliative e nell’eventuale fase terminale. Ma soprattutto è un problema che investe direttamente le fondamenta culturali ed etiche di ogni modello sociale. In altre parole il dilemma circa la comunicazione di diagnosi e prognosi al malato oncologico rispecchia il rapporto che una determinata cultura intrattiene con l’idea della vulnerabilità-malattia e della finitudine-morte

 

 

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